sabato 24 aprile 2010

Barcellona

Non sono mai stata particolarmente attratta dalla Spagna. I sogni racchiusi nella mia valigia spaziano da San Pietroburgo all’Australia passando per alcuni paesi dell’America Latina, perché sarebbe un po’ triste morire senza aver visto Machu Picchu, senza aver mai fatto un salto in Messico o in Argentina. Qui però si parla lo spagnolo, va be’, magari non proprio il castigliano, però è dallo spagnolo che bisogna partire. Poi, vuoi mettere il piacere di leggere la letteratura latinoamericana in lingua originale piuttosto che doversi rifugiare sempre nelle traduzioni? Insomma, per una miriade di ragioni diverse, qualche mese fa mi sono iscritta a un corso di spagnolo, il che non giustifica tanto la mia visita a Barcellona dove in verità si parla il catalano. Però avevo pochissimi giorni a disposizione, un po’ di curiosità per quel genio di Gaudì, avevo appena letto La Piazza del Diamante (ambientato per l’appunto a Barcellona) e, per dirla tutta, non avevamo moltissimi soldi. Mescola gli ingredienti e ottieni el destino del viaggio.





Barcellona me l’ero immaginata diversa: una città moderna, caotica, tutta movida e locali notturni. Invece ho trovato un luogo in cui il passato convive con la modernità, una città festaiola in cui però è ancora possibile trovare qualche angolo di pace e splendidi vicoli stranamente dimenticati dallo sconsiderato numero di turisti che gironzola in ogni dove. È anche vero che Pasqua (così come Natale, Ferragosto e ponti vari) non è il momento migliore per partire: non potevo certo pretendere che fossimo i soli italiani in giro; però neppure pensavo di incrociare così tanti connazionali. Sembrava di camminare per le vie di Roma!
 Arriviamo a Barcellona nel bel mezzo della processione del Venerdì Santo. Poca cosa rispetto alle tradizioni delle altre città del sud della Spagna, ci spiegano. Ma a me fa comunque un certo effetto guardare le bambine vestite a lutto che precedono la statua della Madonna con il Cristo morto tra le braccia. Evento più turistico che religioso, visto il numero di flash che lampeggiano, i bandisti che smettono di suonare e quasi si mettono in posa, le signore che sfoggiano un sorriso da pubblicità Durbans “che denti!”.
 Affrontiamo subito La Rambla, ampio viale pedonale costeggiato da ristoranti e negozi, sgomitando tra i turisti accalcati di fronte agli artisti di strada, più fantasiosi rispetto a quelli di Piazza Navona. A Roma siano abituati all’uomo-statua, quello che non fa un movimento neppure se gli si fa solletico sotto la pianta del piede. Qui no. Le statue viventi non parlano ma gesticolano, lanciano messaggi con lo sguardo, sono tutti variopinti, mimano interpretando personaggi diversi. Però continuo a non capire perché i turisti restino ipnotizzati di fronte a tali performance.
 Ce la prendiamo comoda e imbocchiamo la via del mare tra bancarelle di cianfrusaglie e artigianato locale, il profumo dolciastro dello zucchero filato e delle mandorle glassate. E il nostro pomeriggio vola via in quella condizione senza tempo di chi sa di non aver bisogno dell’orologio e di potersi lasciar andare. 

Nei giorni successivi, però, inspiegabilmente mi lascio prendere dalla foga di vedere tutto, di massimizzare i tempi, di non poter perdere nulla di ciò che avevo progettato di visitare. Una sensazione strana, mai provata in precedenza. Io che generalmente finisco per caso nei luoghi da visitare, io che preferisco smarrirmi tra le vie, fermarmi a leggere negli angoli più incantevoli, curiosare nei negozi, scribacchiare un po’ ovunque, mi trasformo nella visitatrice-turista che deve divorare tutto senza gustare nulla.
 Ancora non capisco cosa diamine mi sia preso ma è andata a finire che, dal secondo giorno in poi, Barcellona l’ho vissuta a metà. Ho camminato tanto, ho visto tanto, non ho né scritto né letto nulla e ho come la sensazione di essermi lasciata sfuggire i momenti più magici, quelli che le parole non possono raccontare. Ho acchiappato tante cose ma ho perso il piacere della scoperta. Boh!

 Ciò che più m’ha encantado è stata La Sagrada Família e l’esterno (non sono entrata) di Casa Battlò. Banale, lo so. Ma la Sagrada Família non può lasciarti indifferente: troppo maestosa, troppo studiata per non farti restare senza fiato. Ma forse, più di tutto, m’ha colpito quel tipo stravagante, pazzo ma geniale di Gaudì. Non sono un’esperta né d’arte né di architettura: mi limito a guardare e cercare di capire perché le opere siano state progettate e costruite in un determinato modo. E confesso che, in questo caso, se non avessi avuto l’audioguida, non avrei capito granché.
 Quest’idea che in natura non esistano linee dritte ma solo curve, il fatto di ricreare ambienti che ricordino il paesaggio che ci circonda, essere in una chiesa e sentirsi in un bosco: troppo affascinante per non lasciarsi incuriosire dalla filosofia di Gaudì.
 Le tinte tenui della facciata di Casa Battló mi hanno trasportato altrove. Nel mondo delle favole, lì dove i folletti si rincorrono tra loro, svolazzando nei prati verdi tra mille fiorellini colorati. Poi La Pedrera (o Casa Milà, dal nome dell’uomo d’affari che ne fu il committente), con la facciata di pietra e il terrazzo sinuoso, una creatura curvilinea. Tutto troppo strano, troppo lontano dalla classicità per poter impressionare il signor valigiesogni che, anzi, impressionato lo era, ma non proprio in senso positivo, ecco.

L’unico posto in cui non tornerei è la Fundació Joan Miró, “abbagliante tempio dell’arte dedicato a una delle stelle del firmamento artistico del Novecento”, recitava la guida. Io non sono un’integralista convinta della bellezza del solo classicismo (posizione da cui non si scosta di un millimetro il signor valigiesogni), ma certe opere erano troppo surreali, e anche un po’ surrealiste, per i miei gusti.


Meravigliosi, invece, la Catedral, il Museu d’historia de la ciutat, Palau Güell, l’Esglesia de Santa Maria del Mar, il Parc del la ciutadella, il Castell de Montjuϊc. Forse ho davvero voluto vedere troppo in troppo poco tempo.
 E poi c’erano i mercati: un tripudio di frutta fresca, pesce, frutta secca, pane, carne e un’accozzaglia di turisti pronti a scattar foto, noncuranti delle maledizioni scagliate dai poveri barcellonesi che cercavano d’acquistar quello che sarebbe diventato il loro pranzo pasquale. O, forse, è questo, la marea di turisti, ad avermi snervato e ad avermi fatto perdere la curiosità verso una città che meritava d’esser scoperta con più cuore e meno testa.
Perché poi, quando ci siamo trovati tra i vicoli di El Raval, in un’allegra pulperia, circondati da barcellonesi, crogiolandoci tra polpi, cannolicchi e frutti di mare, ottimi e a poco prezzo, lontani dal frastuono dei turisti e dalle code dei locali chic dell’Eixample (quartiere borghese, il più lussuoso della città), la serata c’è sembrata più bella. Solo che era il nostro ultimo giorno e allora ho pensato che a Barcellona ci tornerei volentieri, ma in modo diverso. Che non farei la fila per mangiare tapas nei locali imperdibili (dove, tra l’altro, il servizio era pessimo e affatto gentile), che eviterei i quartieri più blasonati e le vie più menzionate dalle guide. Vorrei tornare a Barcellona per vedere qualche altro museo (perché ce ne sono proprio tanti), vorrei perdermi alla ricerca di Plaça del Diamant (dove, alla fine, non sono andata), vorrei gustare di nuovo dei piatti semplici ma deliziosi nei localini meno noti, dove i titolari sono simpatici e accoglienti e, beh!, una cosa chiccosa vorrei proprio farla: spendere un po’ di soldi per un qualche spettacolo nel Palau della Música Catalana, edificio dalla facciata spettacolare. Che bello dev’essere l’interno!

Barcellona è alle spalle, siamo di nuovo immersi nel caos di tutti i giorni e una vocina dentro di me mormora che anche qui dovrei gustarmi di più alcuni momenti e non lasciarmi intrappolare dalla vita vissuta in velocità, quella che spazza via tutto e lascia un senso di vuoto la sera, quando ti stropicci gli occhi. Solo che quella voce spesso resta inascoltata e questo mi urta un po’…    





giovedì 1 aprile 2010

Take a break!

Il nuovo lavoro, quell’incubo chiamato GRA - Grande raccordo anulare - sempre bloccato, ora perché c’è un incidente, ora perché è lunedì mattina, ora perché, che diamine!, è la rush hour, e poi hai deciso di vivere fuori dalla Capitale? E beccati le conseguenze!
E le elezioni, il signor valigiesogni che è sempre fuori, anche lui per lavoro, quel trolley parcheggiato in corridoio perché tanto domani mi serve di nuovo e a che pro metterlo a posto? Il tempo scivola via e io che ancora non riesco a riprendermi dal ritorno dell’ora letale, ehm… legale.
E poi, oggi, a Roma c’è profumo di primavera, l‘aria frizzante e il cielo terso; in ufficio non è ancora arrivato nessuno e domani si parte per Barcellona. E la mia mente è già in viaggio…