La
sveglia suona presto. Mi alzo, borbotto per la schiena dolente, accendo la
radio, preparo la borsina con il pranzo da consumare in ufficio, mi infilo
sotto la doccia. Non mi trucco quasi mai; mi vesto rapidamente; yogurt, frutta,
prendo la borsa per la piscina, chiudo tutto e mi catapulto in auto, sperando
di non perdere il treno delle 7.18. Sembra un trasloco da quante robe mi porto
dietro, invece è la quotidianità.
Parcheggio,
corro verso la stazione mentre una voce monotona annuncia l’arrivo del treno.
Salto su trafelata, tiro fuori il mio libro e dimentico tutto il resto.
Quando
il libro è la prima edizione italiana (Rizzoli) di Shakespeare and Company,
scritto dalla fu libraia/editrice Sylvia Beach (traduzione di Elena Spagnol Vaccari) si finisce per
sognare un’altra vita, un altro lavoro, un’altra epoca. Quella in cui per fare
i librai serviva un gruzzoletto, un’insana passione e un locale da poter
affittare.
Se magari eri un’americana innamorata di Parigi, alla fine della
prima guerra mondiale, potevi aprire una libreria americana lì, in rue Dupuytren, selezionare le opere
degne d’attenzione ed aspettare che André Gide e Paul Valéry arrivassero.
Poiché di soldi da spendere in libri angloamericani non ce n’era granché, ti toccava
associare alla libreria una biblioteca circolante. Già che gli scrittori
stranieri esiliati in Francia erano parecchi, potevi accogliere Ernest
Hemingway, Ezra Pound, Robert McAlmon, Gertrude Stein, Scott Fitzgerald.
Siccome erano altri tempi (quelli in cui quando andavi ad una festa ti capitava di
conoscere James Joyce), se non eri una libraia qualsiasi ma ti chiamavi Sylvia Beach, riuscivi a distinguere un capolavoro da una storia da cestinare. Così,
nonostante le difficoltà e l’inesperienza, ci si poteva buttare nell'impresa di
pubblicare l’Ulisse. Non appena si liberava un locale più grande, potevi
trasferirti in Rue de l'Odéon, accanto alla libreria francese della tua
compagna, Adrienne Monnier.
Neanche
allora, però, le libraie avevano una vita facile. Potevi anche essere la migliore
amica, nonché editrice, di Joyce; potevi anche essere il punto di riferimento
della "meglio cultura" d’inizio
Novecento. Ma sempre povera in canna restavi.
Il
volume della Rizzoli con le sue foto in bianco e nero alimenta il sogno. È un
peccato doverlo restituire in biblioteca.
È un
brusco risveglio quello di chi, sgomitando, cerca di scendere dal treno.
Mi
incammino verso l’ufficio e rimugino. Quelle librerie lì non esistono più; quelle che vi somigliavano lottano ogni giorno tra la vita e la morte, quindi è
inutile fantasticare su come sarebbe la mia vita se svolgessi un altro lavoro.
Non
sono scomparsa nel nulla. Ho anche letto bei libri, visto belle mostre,
trascorso giornate che meritavano di essere raccontate ma sono come
intorpidita. Sarà questo cielo grigio, la pioggia che non cessa di cadere, la
primavera che non ha intenzione d’arrivare. Un indolenzimento che mi ha tenuta
lontana dalla rete, dalla scrittura, dai blog. È tempo di destarsi.