lunedì 31 dicembre 2018

La scomparsa dei buoni propositi


Che poi il 2018 non è stato troppo brutto. Ma neppure memorabile. Ho aperto l’agenda per verificare la quantità di buoni propositi disattesi. Lo faccio sempre in questo periodo dell’anno. In genere scorro l’elenco, annuisco malinconicamente davanti al numero di cose non fatte, trovo inutili giustificazioni (“Sarai autolesionista nell’elencare obiettivi irraggiungibili?”), e riprendo a scrivere ostinatamente più o meno gli stessi propositi dell’anno precedente, senza correggere troppo il tiro perché l’uomo deve mirare a 100 per ottenere 60. A sorpresa, lo scorso anno un barlume di saggezza mi ha indotto a scrivere appena due righe; nessun bilancio, nessun elenco. Mi sa che ero ubriaca. Neppure ricordavo d’aver saltato il rito dei buoni propositi.
Devo riconoscere d’aver letto molto meno di quanto desiderassi, d’aver scritto pochissimo, d’aver tralasciato i social (senza riportare traumi rilevanti), d’aver ripetuto a giorni alterni “do le dimissioni e mi cerco un altro lavoro” (molte chiacchiere, pochi fatti), d’aver provato spesso la sensazione d’annaspare. Come le prime volte in piscina, quando l’istruttore continuava ad urlare alla me trentasettenne “Non affoghi, respira, muovi quelle braccia, rilassati e staccati da quel bordo”, mentre le mie dita blu non ci pensavano proprio ad allontanarsi da quel bordo e il corpo sembrava sprofondare inesorabilmente verso il fondo. Perché non metto in dubbio che gli altri corpi abbiano la naturale tendenza al galleggiamento, ma il mio tende ad affogare e io so respirare benissimo in montagna, in bicicletta, dopo diversi chilometri di corsa, ma sott'acqua no. Il 2018 è stato un continuo boccheggiare, aspettando che arrivasse il piacere di quelle vasche tutto dorso e doppio dorso con la schiena che finalmente si allungava e i pensieri altrove.         
Niente, quel piacere non è ancora arrivato. Il cambiamento richiede tempo, non lo si può confinare in un calendario.
Eppure sarebbe ingiusto liquidare il 2018 come l’anno dei malumori. C’è stato il mare d’inverno (quello freddo, delle nostre coste, che ti ghiaccia le mani mentre corri a Capodanno), le risate col coniuge, quelle che sdrammatizzano anche i momenti bui, le corse intorno al lago la domenica mattina, Mantova, Ferrara con il bibliopatologo, Lucca, il mare di Trieste, il quartiere ebraico di Praga, arrivare a Bled in bicicletta, il gruppo di lettura in biblioteca, il sabato galeotta, le serate intorno a un libro, gli amici di sempre, gli amici ritrovati, mia nipote duenne che urla ziaaa! e mi schiocca un bacio con l’abbraccio forteforte.
E poi c’è questo blog, che ho trascurato, è vero. Ma che continuo a considerare casa. Uno spazio che richiede tempo, riflessione, perché è un luogo di condivisione che se ne infischia dei pollici alzati, della velocità dell’informazione e del numero di followers raggiunti (pochi, come potete notare qui accanto). È un luogo che, anno dopo anno, mi ha permesso di conoscere altri appassionati di libri, di zaini in spalla, di treni, di mappe, di librerie, di biblioteche, di elefanti. Visitatori che sono diventati amici. Ed è per questo che, in tempi in cui avere un blog non è più cool, sono felice di restare ancorata a questo spazio.
Buon 2019 amici miei.

martedì 11 dicembre 2018

Nella Nuvola. Sprazzi di Più libri più liberi 2018


Venerdì pomeriggio, ufficio. All’ennesimo tutorial dell’ennesimo software di fatturazione costruito apposta per me, ho la sensazione che il mal di testa non sia una conseguenza della fatturazione elettronica ma del raffreddore in arrivo. Non ho mai capito la ragione per cui riesca ad ammalarmi puntualmente di venerdì, mandando in fumo i programmi del weekend, per tornare al lavoro il lunedì stropicciata e nervosa.
A Roma c’era la XVII edizione di Più libri più liberi; i tempi in cui prendevo addirittura un paio di giorni di ferie per vivere pienamente la fiera della Piccola e Media editoria sono lontani, però rinunciare al sabato nella Nuvola mi rodeva un po’. Programma della fiera alla mano, impasticcata e confusa, son salita sul mio trenino, dribblando gruppuscoli di Salviniani diretti in Piazza del Popolo. 
Girare tra gli stand non mi entusiasma più. La sindrome da sabato mattina al supermercato m’ha preso dopo dieci minuti. Eppure era presto, i corridoi non erano ancora affollati e avrei anche potuto scambiare due parole con gli espositori. Invece sono fuggita anzitempo nella sala in cui si teneva l’incontro con Gianrico Carofiglio e Jacopo Rosatelli.
I miei incontri:
- Ho ascoltato un caustico Carofiglio concentrato sulle parole della comunicazione politica e sull’utilizzo improprio di espressioni giuridiche. Prende spunto dall’attualità politica, è più pungente di quanto non lo sia già in alcune puntate di Otto e mezzo della Gruber, spiega la differenza tra trasparenza e riservatezza, ricorda l’accezione positiva del termine compromesso, racconta un aneddoto esemplificativo di cosa sia la buona politica.
Gianrico Carofiglio con Jacopo Rosatelli, Con i piedi nel fango. Conversazione su politica e verità, Edizioni Gruppo Abele;
- Ho dato un volto a Florinda Fiamma, una delle voci di Radio3, che ha coordinato la presentazione di Adulterio e altre scelte, raccolta di racconti di Andre Dubus. In Italia, a farci scoprire Dubus sono stati il traduttore Nicola Manuppelli e la casa editrice Mattioli 1885
Manuppelli racconta ancora una volta il suo primo approccio con Dubus. Una sera va al cinema a vedere I giochi dei grandi. Il film non lo fa impazzire ma lo colpisce la tensione fra i personaggi. Gli sembra una cosa nuova, non sa neanche bene come poterla descrivere ma sa di non aver mai letto una roba simile. Dopo qualche mese, s’imbatte nelle short stories di un narratore americano che sa creare quella forte tensione tra i personaggi. Lo scrittore è Andre Dubus e, non a caso, I giochi dei grandi era stato tratto dai suoi racconti.    
Andre Dubus, Adulterio e altre scelte, Mattioli 1885. 
- Mi sono persa dietro le immagini evocate dall’antropologo Marco Aime e dal geografo Davide Papotti mentre parlano di mappe, viaggi, Altro e altrove.
Piccolo lessico della diversità a cura di Marco Aime e Davide Papotti, Fondazione Benetton Studi Ricerche - Antiga Edizioni.
- Massimo Cacciari e la Divina Commedia. E non dico altro perché non ne ho gli strumenti. Lo ascolto in piedi, in silenzio, troppe cose mi sfuggono. Da profana, avrei eliminato le letture di Massimo Popolizio: una Divina Commedia troppo recitata, esasperata, eccessiva. Insomma, declamata da Popolizio non m’è piaciuta.
Divina Commedia a cura di Enrico Malato, Salerno editrice.
- Marco Damilano interroga Luciano Canfora sul moto violento della storia che spazza via il marciume e l’immobilismo di alcune fasi storiche. Non fa sconti a nessuno Luciano Canfora: spietato con la sinistra italiana e francese, spietato verso L’Europa, spietato verso i cosiddetti intellettuali.
Chiude ricordando una frase profetica di Karl Marx: il conflitto di classe come possibile comune rovina delle classi in lotta. Non si può star tranquilli che in qualche modo i problemi si risolvano: li dobbiamo affrontare noi.   
Luciano Canfora, La scopa di Don Abbondio, Laterza.
- L’ironia di Diego Bianchi e della banda di Propaganda live.


Altre cose belle:
- Abbracciare un pezzo di scratchreaders (tipi strani che leggono e commentano su facebook una quantità enorme di libri, scritti prevalentemente da gente morta);
- Mangiare un panino nella Nuvola, ciarlando di racconti e editoria;
- Sbirciare gli incontri evidenziati dal coniuge, stravolgere i miei programmi pomeridiani e seguirlo;
- Scendere dalla Nuvola mentre Propaganda non è ancora concluso ma la fiera è già chiusa da un pezzo. I corridoi puliti, gli stand con i libri in ordine, pronti per essere sfogliati, spostati, imbustati il giorno successivo. Le luci soffuse, un silenzio irreale. È come se vedessi la Nuvola per la prima volta. L’immagine più bella della giornata. Vacillo. Ma forse è solo la febbre che ricomincia a salire.

sabato 24 novembre 2018

Handmade


Apro la posta elettronica e inizio a maledire il Black Friday che ha triplicato la spazzatura che riempie quotidianamente la mia casella (non c’è opzione unsubscribe che tenga. Non so quante volte avrò ordinato a destra e manca di cancellarmi da iscrizioni mai scientemente chieste). Sì, ho avuto anch’io la tentazione di approfittare di sconti favolosi che mai, dico mai, mi capiteranno più nella vita. E quando ho realizzato che stavo perdendo tempo su un sito, facendomi influenzare dalla follia che ci circonda, pronta a tirar fuori la carta di credito per acquistare una roba di cui non ho alcuna necessità, mi sono data della cretina e ho chiuso tutto.
Comunque, la vita dell’aspirante consumatrice consapevole è durissima. C’è voluto un po’ prima di trovare il canale giusto per ricevere miele, frutta e verdura dai piccoli produttori locali (no, non è una scelta basata sul risparmio, ma i prodotti sono buoni e me li consegnano a casa); anche trovare il posto giusto per caffè e cornetto non è stata mica una passeggiata (spiace vedere l’elevato turnover del personale del baretto vicino l’ufficio e comprendere che il malcontento derivi dal lavoro mal retribuito e irregolare). E l’abbigliamento? Non rinnovo il guardaroba ogni cambio di stagione, però qualche domanda di fronte a quegli abitini tutti identici, a prezzi irrisori, me la faccio anch’io. Ma se volessi indossare qualcosa di più originale senza spendere un patrimonio e con la speranza di pagare equamente il lavoro altrui?
Mi sono ricordata di un’amica che creava gioielli artigianali e che aveva aperto il suo negozietto sulla piattaforma Etsy. Ora, io non so se anche dietro Etsy ci siano delle fregature, certo è che la mia prima esperienza di acquisto è stata positiva.
Ho scovato la giovane Giulia e la sua passione di coniugare la moda con qualsiasi forma artistica (dalla pittura alla letteratura). Giulia è di Padova, il suo spazio su Etsy si chiama Abricot Atelier e pochi giorni fa ho ricevuto il mio acquisto.


Confezionato con amore, curato nei dettagli, pensato nei minimi particolari. Le attenzioni di Giulia sono state tali da farmi pensare d’aver ricevuto un regalo, e non di aver speso dei soldi.


L’abito (perfetto) e la gonna (morbidissima e ben cucita) sono stati accompagnati da un grazioso taccuino per “annotare i tuoi momenti di bellezza e poesia”.
Grazie Giulia, continua a far danzare le tue mani e la tua fantasia.

martedì 13 novembre 2018

In viaggio con Martha Gellhorn e con qualcuno


Non a tutti è dato di essere un Marco Polo e nemmeno una Freya Stark, ma nonostante questo, siamo in milioni a viaggiare. I grandi viaggiatori, viventi o del passato, sono una categoria a sé stante di professionisti inarrivabili. Noi siamo semplici dilettanti e, se pure abbiamo i nostri momenti di gloria, perdiamo le energie e il vigore, viviamo anche momenti di amarezza. Chi non ha mai sentito, pensato o detto: «Santo cielo, mi hanno perso un’altra volta i bagagli!», «Siamo arrivati fino a qui per vedere quella roba?», «Perché devono fare tutto quel fracasso?» […]
Eppure insistiamo e facciamo il possibile per vedere il mondo e per muoverci: arriviamo dappertutto. Quando torniamo, non c’è nessuno che si presti volentieri ad ascoltare i nostri racconti. «Com’è andato il viaggio?», ci chiedono. «Stupendo. A Tblisi ho visto…». Occhi sgranati. Appena lo permette la buona educazione (o anche prima), la conversazione si sposta su qualche pettegolezzo, lo scandalo politico del momento, lo show della sera prima alla televisione. L’unico caso in cui un nostro viaggio ci garantisce un uditorio attento è un disastro. «Il cammello ti ha disarcionato e ti sei rotto una gamba?», «Hanno chiuso a chiave la sauna di Vijipuri e ti hanno dimenticato dentro?». Ecco cosa li diverte. Non ci lasciano nemmeno finire di raccontare e si lanciano nelle descrizioni delle loro sofferenze in lande remote.

Martha Gellhorn non leggeva libri di viaggio, preferiva viaggiare. Viaggiava per curiosità, per incapacità di star ferma nello stesso luogo, per documentare guerre, per capire come vivessero le persone negli angoli più remoti della terra, per scoprire acque limpide in cui nuotare, perché suggestionata da nomi magici: Pechino, Samarcanda, Costantinopoli, Tahiti. Fumava, beveva whisky, negli anni Sessanta guadava fiumi in Uganda alla guida di una  Land Rover scassata; non partiva mai senza una buona scorta di gialli; non amava circondarsi di oggetti inutili, pensava che il possesso la rendesse schiava e non sentiva la necessità di acquistare cose che non le servivano. Era una donna pratica, un po’ incosciente, maniaca dell’igiene e della pulizia; inorridiva al pensiero di non potersi lavare i denti sul fiume Chiang Jiang, mentre i giapponesi bombardavano i cinesi.
Preferiva viaggiare da sola, ma nel 1941 costrinse il Compagno Riluttante ad andare dove non aveva nessuna intenzione di andare. In quegli anni, la giornalista Martha Gellhorn lavorava per il Collier’s e il suo direttore le diede l’incarico di documentare la guerra sino-giapponese
«Ero ben decisa a vedere l’Oriente prima di morire, prima della fine del mondo o di qualsiasi cosa sarebbe poi capitata». Da appassionata corrispondente di guerra, non avrebbe mai rinunciato a quell'opportunità. Ma ebbe la malaugurata idea di convincere il Compagno Riluttante (CR) a partire con lei. CR era Ernest Hemingway, suo marito dal 1940 al 1945: sposati dopo la guerra di Spagna, separati dopo lo sbarco in Normandia.
Quel gran bevitore di Hemingway non aveva trascorso gli anni della sua formazione a bighellonare sui tram e a imbottirsi la testa con i romanzi di Somerset Maugham, come aveva fatto, invece, sua moglie. Così, mentre Martha andava in giro a tastare il polso della nazione, CR preferiva andare a caccia nelle colline circostanti e sbevazzare qualsiasi cosa (compreso il vino di serpente) con chiunque. Senza perdere mai l’occasione di rinfacciarle che era finito in Cina per assecondarla. 
Il nome di Hemingway non viene mai menzionato nel devastante viaggio cinese; Martha Gellhorn si riferisce a lui chiamandolo sempre the Unwilling Companion (nella traduzione italiana Compagno Recalcitrante), il “qualcuno” del titolo.
Il viaggio in Cina con qualcuno rientra tra i cinque horror trips, le cinque esperienze di viaggio più disastrose, che Martha Gellhorn ci racconta in questo libro. In una piagnucolosa lettera, inviata a sua mamma, scrisse: «La Cina mi ha guarito. Non voglio viaggiare più». Ma Martha era una viaggiatrice incurabile, nessuna disavventura avrebbe potuto guarire la sua smania di viaggiare.
Tra gli altri horror trips racchiusi in In viaggio da sola e con qualcuno c’è il suo primo incredibile viaggio alla scoperta dell’Africa; un viaggio folle nel 1942 tra le isole caraibiche per documentare la guerra tra le forze marine Alleate e la flotta sottomarina tedesca; un viaggio in Israele in cui Martha tenta di comprendere la filosofia di una comunità hippy (comunità troppo fumata per poter comunicare qualsiasi cosa); un viaggio nella lontana Russia solo per conoscere Nadežda Jakovlevna Chazina, vedova del poeta Osip Emil’evič Mandel’štam.  
Nel 1998, all’età di 89 anni, ormai malata e quasi cieca, Martha ingerì un paio di pillole pensando forse non avesse più senso continuar a vivere senza poter viaggiare, leggere e nuotare.
Se avessi scoperto questo libro una ventina di anni fa, avrei fatto ciò che lei considerava normale: inviare una lettera alla scrittrice, ringraziandola per avermi fatto sorridere e per avermi concesso di favoleggiare sui tempi in cui il Kenya non era sinonimo di resort e le isole caraibiche erano un angolo di paradiso (nonostante una guerra mondiale). Ma sono arrivata tardi e posso solo ringraziare le biblioteche di Roma per avermi fatto leggere questo volume ormai fuori catalogo. 
Travels with Myself and Another (1978) è stato pubblicato in Italia nel 2006 da FBE edizioni nella traduzione di Guido Lagomarsino e non credo sia mai stato ristampato. Peccato. Però, lo si può acquistare facilmente in lingua originale o approfittare dell’occasione per una spedizione sui banchetti dell’usato. Con un po' di fortuna...   

domenica 16 settembre 2018

Mantova e il Festivaletteratura




Il Festivaletteratura di Mantova è caro.
Vero. Gli incontri più interessanti sono a pagamento e sarebbe opportuno prenotarli prima, altrimenti si rischia di fare la fila inutilmente, senza poter accedere al luogo in cui si svolge l’evento. Quindi è un festival che “va organizzato”.
Anche Mantova è costosa nei giorni del Festival.
Verissimo. Le strutture ricettive sono limitate e gli albergatori approfittano dei tanti visitatori che affollano la città.
In generale, i festival sono troppo commerciali. Il lettore dovrebbe dedicare più tempo alla lettura anziché girare di città in città ascoltando ciò che gli scrittori raccontano d’aver scritto.
Punto di vista condivisibile, ma… Ma Mantova fa bene al cuore, al mio sicuramente, e anche quest’anno, fatti due conti, ho deciso di regalarmi qualche giorno di festival.
Come sia Mantova nei restanti 360 giorni dell’anno non saprei dirlo. Mantova per me è il Festivaletteratura: l’ho conosciuta così questa città e non saprei immaginare Piazza Sordello senza il tendone in cui si svolgono gli incontri fino a tarda sera, i portici del Palazzo Ducale senza banchetti dei libri usati, Piazza Leon Battista Alberti senza la postazione di Radio 3, la Loggia del Grano della Camera di Commercio senza la segreteria del Festival, la città senza i volontari in maglietta blu che sfrecciano da un punto all’altro per permettere lo svolgimento dell’evento, le librerie piene di gente con cui condividere opinioni di lettura senza dover postare la copertina del libro su questo o quell’altro social. Mantova nei giorni del festival è una comunità di lettori che gira a piede libero. È l’atmosfera a rendere speciale il Festivaletteratura, gli incontri casuali, la gente che sorride, i libri che ti capitano tra le mani.
Il Festivaletteratura non è perfetto: si resta sempre delusi da qualche incontro, si corre da un luogo all’altro maledicendosi per aver scelto eventi in posti così distanti, impossibili da raggiungere in poco tempo; ci si rammarica di fronte a un “evento esaurito”. Si arriva a sera stanchi ma tendenzialmente felici.
Di quest’anno non dimenticherò:
- L’incontro con la canadese Helen Humphreys, la scrittrice più laconica in cui mi sia mai imbattuta. M’incuriosiva il titolo furbetto dell’incontro “Il fascino della letteratura” e mi aspettavo un’autrice spigliata che facesse citazioni a tutto spiano. Invece, la povera Simonetta Bitasi, che curava l’incontro, ha faticato non poco per strappare una risposta che andasse oltre il sì, no, è vero… Eppure la Basilica Palatina di Santa Barbara ospitava tantissimi lettori innamorati della Humphreys ed è stata proprio una lettrice, Paola, nonostante l’incontro deludente, a suggerirmi di leggere almeno un titolo, Cani Selvaggi, anche se “dopo un incontro del genere nessuno avrebbe voglia di leggerla. Invece, credimi, è dirompente”. Perché a Mantova succedono cose insolite, tipo iniziare a chiacchierare in libreria con persone sconosciute e continuare a parlare di libri nel caffè accanto.
- La potenza delle immagini di Sarajevo mostrate dall’architetta e scrittrice Diana Bosnjak Monai nel corso dell’incontro Accadde a Sarajevo. Le sorti politiche dell’ex Jugoslavia furono l’oggetto di uno dei miei primi casi studio ai tempi dell’Università. Era la fine del secolo scorso (che detta così fa quasi paura) e la guerra balcanica vista a freddo diventava una mera ridefinizione dei confini e degli assetti politici di un’area complessa. Vedere le immagini di allora, scattate da persone comuni, ascoltare la testimonianza di chi ha vissuto quella guerra, è stato un rimescolare in un passato recente eppure già dimenticato.
«Mio nonno iniziò ad annotare quotidianamente ciò che avveniva in città dopo il bombardamento della biblioteca universitaria di Sarajevo perché – mi disse – quando un popolo inizia a bruciare gli archivi storici del proprio Paese è pronto a commettere qualsiasi efferatezza».       


- La passione per la lingua italiana di Jhumpa Lahiri e il racconto dettagliato della genesi del suo primo romanzo in italiano, Dove mi trovo. Le esitazioni da cui si percepisce la continua ricerca della parola giusta, le sue affermazioni spiazzanti: L’italiano mi permette di togliere il superfluo, di pulire i miei pensieri. Sono alla ricerca dell’essenziale.
- Marcello Fois che parla dei Promessi sposi e quasi quasi mi viene voglia di rileggere seriamente Manzoni.
- La scoperta delle streghe dei Carpazi Bianchi attraverso le parole di Kateřina Tučková, che poi streghe non erano ma guaritrici, donne che conoscevano il potere curativo delle erbe e che attraverso il loro lavoro garantivano il sostentamento economico della famiglia. Donne finite al rogo perché considerate vecchie ciarlatane, streghe dai poteri malefici, emarginate, scivolate nell’ombra e presto dimenticate.
- L’ironia di Patrick McGrath: sì, scriviamo storie atroci ma non sono quelle a farmi venire gli incubi. Ci sono molte altre cose che mi tormentano, le parole di Donald Trump, ad esempio. 

- Ascoltare l’islandese di Jón Kalman Stefánsson senza capire mai quando stia scherzando (ed è un tipo divertente, ma è impossibile percepire qualsiasi sfumatura con una lingua così diversa dalla nostra).
- Istanbul raccontata attraverso le immagini dell’architetto Alper Derinboğaz, curatore del futuro Museo della storia di Istanbul e attraverso le parole della scrittrice newyorkese di origini turche Elif Batuman.
Alper Derinboğaz: Quando passeggio nelle città italiane è come star seduto nel salotto di casa mia: tutto curato nei minimi dettagli, rilassante. 
Istanbul, invece, si è frammentata, ha perso il controllo, è impossibile distinguere uno spazio pubblico (come possono essere le piazze italiane) da uno spazio privato. E la mia idea romantica di una Istanbul come luogo letterario s’infrange irrimediabilmente.
- Lo stupore e il senso d’impotenza mentre vengo schiacciata dai Giganti a Palazzo Te.

- La centrifuga energizzante con la libraia italiana a Vienna. No, non è l’ultimo libro frivolo su libraie, bibliotecarie e librerie. Silvia è una libraia in carne ed ossa, libraia nell’unica libreria italiana di Vienna. Organizza più incontri lei di molti librai italiani a me noti. E non dite eh, ma lì si legge di più; neanche la situazione è semplice per i librai, e anche amazon è più pratico e più economico di qualsiasi libreria fisica.
Qui la pagina facebook della libreria gestita da Silvia.

Tornata alla quotidianità, ripenso alle parole della signora che, in fila alla biglietteria, sbirciando la lunga lista di eventi che avrei seguito disse: “Ma è peggio di una giornata in ufficio!”. E come suggerì l'amica Maria, al posto del mio sorrisetto imbarazzato avrei dovuto rispondere “Non scherziamo signora!” Se il lavoro fosse così, sarebbe un po’ meno lavoro…

Ciao Mantova, vediamo se riesco a tornare anche l’anno prossimo.

domenica 2 settembre 2018

Passeggiando per Vicenza

Basilica Palladiana

Orfani delle biciclette, il nostro intenso tour agostano termina con un paio di spritz in Piazza delle Biade, dando le spalle alla Basilica Palladiana. Il coniuge questa volta aveva ragione: Vicenza meritava una sosta.
Fotogrammi sparsi:
Andrea Palladio era un genio e nessuna parola su carta potrà esprimere l’emozione che si prova entrando nel Teatro Olimpico da lui progettato e inaugurato nel 1585, quando l’artista era ormai scomparso. 
L’inaugurazione avvenne con la rappresentazione dell’Edipo Re di Sofocle, utilizzando scene in legno e stucco, disegnate da Vincenzo Scamozzi, raffiguranti le vie della città di Tebe. Il giorno dell’inaugurazione le vie di Tebe vennero illuminate con un complesso sistema di illuminazione artificiale, creando presumibilmente la stessa magia visibile ai nostri giorni. Quelle che avrebbero dovuto essere scene temporanee, infatti, non vennero mai rimosse e il visitatore del 2018 resta incantato davanti a quel gioco di luci che fa spostare lo sguardo dalle statue circostanti alle strade dalla lunghezza indefinita.
Teatro Olimpico

- Fermarsi in religioso silenzio davanti al Battesimo di Cristo di Giovanni Bellini, custodito insieme ad altri capolavori nella Chiesa di Santa Corona. Imbattersi in un elefante all’esterno della suddetta chiesa e pensare a una cara amica posseduta dai viaggi degli elefanti...


- Dopo tanta architettura classica, restare esterrefatti dinanzi all'esuberanza barocca del Palazzo Leoni Montanari

Sorridere del contrasto tra le straordinarie opere della pittura veneta del ‘700 (primo piano della Galleria. Imperdibile) e la divertente irriverenza della mostra Summertime (170 opere realizzate da illustratori internazionali contemporanei, raffiguranti i campioni del calcio, i grandi del musica e del cinema e suggestive mete per viaggi futuri).   


- I podestà di Vicenza, ritratti da Francesco Maffei ed esposti nel ricchissimo Museo civico di Palazzo Chiericati, che escono dalla tela e ti guardano drittodritto negli occhi. Tutto sotto il vigile controllo di Venezia.
- La considerevole raccolta di incisioni, disegni, oggetti, libri d’arte donati dal Marchese Giuseppe Roi al Museo Civico di Palazzo Chiericati.
- Il baccalà alla vicentina, il baccalà mantecato, le frittelle di baccalà, il baccalà in insalata… il baccalà il tutte le sue forme.
- Un bacio al tramonto sul Ponte San Michele, incuranti delle zanzare assassine che azzannano le caviglie.
 
Esterno del Teatro Olimpico


Consigli pratici:
Vicenza è una città piccina e ben collegata. Se andate per un weekend, scegliete l'opzione treno e un hotel abbastanza centrale (il nostro non era centralissimo ma noi camminiamo volentieri).
Il biglietto unico vi consente di visitare i musei più interessanti della città (non include la Basilica Palladiana, gestita da un altro ente). Il biglietto unico costa € 15,00 (ben spesi), ma ci sono anche diverse riduzioni.
Pappa: noi siamo stati con grande soddisfazione all’Osteria Veneto’s e a Il Ceppo.
Per mancanza di tempo, abbiamo saltato le celebri ville vicentine. Una ragione in più per tornare.   



martedì 28 agosto 2018

In bici da Cividale del Friuli al mare di Trieste


Cividale del Friuli
Cividale – Udine – Gradisca d’Isonzo. Come smarrirsi nelle campagne friulane.

Varrà la pena allungare il giro per una breve sosta a Udine? La giornata è meravigliosa, i problemi tecnici con la bici sono stati risolti e, in fondo, questi viaggi servono anche a farsi un’idea per futuri ritorni.
Pedalata piacevole su strade poco trafficate; giunti all’ingresso della città ci guardiamo intorno spaesati. Dovrebbe esserci una ciclabile, ma dove? Il tempo di prendere la mappa e si avvicina un signore gentilissimo. Vi siete persi? Eh, lo so, anch’io giro sempre in bici e purtroppo Udine è così, un po’ balorda (no, non lo è. O, per lo meno, non lo è se vivi in un posto dove neanche hanno idea di cosa sia una ciclabile. Ma capisco che facendo il confronto con l’Alto Adige, Udine possa apparire arretrata). Ad ogni modo, il signore molto affabile ci indica subito il percorso da seguire, la ciclabile a singhiozzi e, scusandosi della mancanza di attenzione che l’amministrazione comunale riserva alle due ruote, ci saluta. Noi restiamo lì inebetiti. Forse siamo particolarmente fortunati negli incontri casuali, non so; certo è che nelle nostre incursioni in Friuli abbiamo sempre incrociato persone cordiali, accoglienti, pronte a dare consigli e informazioni prima ancora che fossimo noi a porre la domanda.
Udine
Bello il centro di Udine, città del Tiepolo, come ci ricordano le indicazioni in Piazza Libertà. Ci fermiamo per un caffè, ascoltiamo le conversazioni rilassate di chi, come noi, è in ferie; facciamo una passeggiata fino al Castello e decidiamo che Udine merita un’altra visita, senza fretta.
Udine
Partiamo alla volta di Gradisca d’Isonzo. La nostra mappa prevede un itinerario lungo, seguendo per un breve tratto la ciclovia Alpe Adria per poi proseguire su stradine secondarie e di campagna, tra coltivazioni di soia (aver un coniuge agronomo, sebbene non eserciti, a qualcosa servirà pure. Per me, quelle piante lì erano fagioli). Bello all’inizio, molto bello. Poi c’è un momento in cui temiamo di dover trascorrere la nottata lì, nella soia. Solo campagna; le indicazioni fornite non corrispondono a niente nei paraggi. Stradine sterrate e campi.
Appena raggiungiamo la statale, il coniuge se n’infischia del percorso che avremmo dovuto seguire e mi conduce temerariamente alla meta.
Perché Gradisca rientri tra i borghi più belli d’Italia resterà per noi un mistero. Cittadina deserta, una sensazione d’abbandono più che di pace. Il coniuge scatta qualche foto nell’assoluto silenzio. Ci fermiamo a cena in uno dei due ristoranti aperti; proprietari gentili in un luogo addormentato, sorpreso dall’imprevisto arrivo di ospiti.

Gradisca d'Isonzo
Gradisca d’Isonzo – Trieste. La meta.
Lo scarso entusiasmo per il borgo di Gradisca viene compensato dal meraviglioso verde dell’ambiente circostante. Partenza in salita, ma il luogo è così bello e così ombreggiato da rendere piacevole anche il fuori sella. Mi preoccupa solo la discesa alla volta di Trieste. Nelle indicazioni fornite prima di partire siamo stati avvisati del fatto che il percorso da Duino a Miramare è tanto bello quanto trafficato. Però vogliamo arrivare dentro il mare di Trieste; voglio capire il significato delle parole di Mauro Covacich:
A Trieste si fa il bagno in centro città e, comunque, in qualsiasi punto del lungomare ti trovi, puoi accostare, scendere, spogliarti in strada, fare dieci passi e toccare l’acqua. Questa frequentazione familiare e più che assidua spiega l’uso dell’espressione triestina «andar al bagno» per intendere «andare al mare» (e non «andare alla toilette»), come se Barcola fosse la vasca di casa, quella che si raggiunge scalzi o tutt’al più in ciabatte.     
Lungomare da Duino verso Trieste 
E così è stato. Si passa dal traffico della statale alla lunga distesa di asciugamani sul marciapiede, tra le auto parcheggiate e il mare. Bimbi che giocano, signori che leggono, mamme che chiacchierano, qualcuno passeggia come fosse sul bagnasciuga e non su un marciapiede a pochi passi dal centro della città. Io non so perché ma arrivo a Trieste e mi sento a mio agio. Mi viene un’allegria, una smania di camminare, perdermi nella città più di quanto non accada in altri luoghi.
Vogliamo andar a visitare la Risiera di San Sabba (le mie recenti letture me lo impongono) e abbiamo la malaugurata idea di continuare a muoverci in bicicletta. Il coniuge deve aver rimosso che Trieste non è un cittadina pianeggiante ed io, scioccamente, non mi oppongo. Confesso che è stato più faticoso il tratto centro città – Servola – Risiera di San Sabba (facendo un giro strano, molto strano) e ritorno, dei 40 km da Gradisca a Trieste.
Il Museo civico della Risiera di San Sabba, inaugurato nel 1975, è un altro di quei posti in cui bisognerebbe accompagnare gli adolescenti. Una visita che vale più di qualche lezione di storia sui banchi di scuola. Una visita che, in questi tempi strani, ci ricorda il nostro passato, gli errori commessi, gli orrori permessi e perpetrati. L’ingresso è gratuito, l’audioguida costa appena 2 euro e le testimonianze raccolte nell’ultima sala museale ti accompagnano mentre pedali via.
Trieste è anche l’ultima tappa del nostro ciclotour, il luogo in cui riconsegniamo le bici noleggiate a Dobbiaco e torniamo alla praticità dello zaino e agli spostamenti sui mezzi pubblici. Serata in Via Cavana, camminando nella Città Vecchia col suo fascino irresistibile. Ci sono tanti angoli di Trieste che vorrei esplorare e forse sarebbe stato saggio fermarci qualche giorno in più, anziché prendere un treno per Vicenza l'indomani.
«Io tornerò il prossimo anno – fa il coniuge sornione, sorseggiando un vinello bianco frizzante – mentre tu farai il tuo viaggio al Nord, in quelle terre fredde, dalle lingue strane. Ho già adocchiato un Trieste-Pola in bici. Magari mi tratterrò qualche giorno sia a Trieste che a Pola. Però ti invierò le foto. Abbiamo detto vacanze separati, giusto?».
Abbiamo detto vacanze separati? Trieste, Pola, bici, lungomare… Però, coniuge, non potrai mica prendermi sempre alla lettera!
 
Trieste - Piazza Unità d'Italia
Note tecniche.
- Anche questa volta, come avvenuto già lo scorso anno, ci siamo affidati a Fun Active, società specializzata nel cicloturismo con sede in Alto Adige. Una soluzione pratica per chi, come noi, non ha troppa dimestichezza con le ciclabili e non ha abbastanza tempo, allenamento, esperienza per poter organizzare un viaggio di più giorni in luoghi che non conosce. Abbiamo scelto il viaggio che ci interessava, ricevuto le mappe con i percorsi da seguire e il materiale informativo direttamente a casa. Abbiamo noleggiato le bici a Dobbiaco e le abbiamo restituite a Trieste. Le prenotazioni in hotel vengono effettuate direttamente dall’agenzia: si dorme in luoghi molto belli e, onestamente, il prezzo complessivo del viaggio è di gran lunga più economico del listino prezzi degli hotel in cui abbiamo soggiornato. Il transfer dei bagagli è a cura dell’organizzazione. Un viaggio leggero, fattibile anche da chi non è allenato. So che organizzano tour di gruppo e che ci sono altre agenzie simili. Ma non avendo sperimentato formule diverse, non posso fare confronti.
- Tra gli alberghi in cui abbiamo dormito, ho adorato l’Hotel Triglav a Bled (stanza vista lago) e il Victoria Hotel letterario a Trieste. Non abbiamo dormito nella suite dedicata a James Joyce, che abitò in questo palazzo neoclassico, ma il soggiorno è stato ugualmente memorabile (per una ancora abituata agli ostelli, come fa notare il coniuge, il pernottamento è stato di gran lusso).
Camera con vista - Lago di Bled