Ho
ascoltato Fernando Aramburu al
Festival della letteratura di Mantova lo scorso settembre.
Aramburu
aveva già portato l’Eta nel mio precedente appartamento qualche anno fa.
L’aveva fatto con dieci brevi racconti, I pesci dell’amarezza (usciti per i tipi di La nuova frontiera). C’erano
anche lì degli aita (papà), delle ikurriña (bandiere basche) che
sventolavano, diverse ekintza (attentati),
un qualche barlume di barkatu (perdono).
M’ero fatta l’idea che Aramburu fosse un uomo malinconico, la voce esile, lo
sguardo basso alla ricerca di una qualche verità. Perciò non mi sono stupita
molto quando ha iniziato a parlare: quasi monotono, nemmeno un filo d’ironia,
un sorriso dolce che s’è dissolto in un attimo; nessuna ruffianeria verso i
potenziali lettori presenti nella chiesa di Santa Paola, a Mantova. La signora
accanto a me annuiva a ciascuna delle sue parole, senza attendere la
traduzione. Seria, attenta, un convinto applauso finale. Un breve scambio di battute. Mi par di capire che ha già letto Patria. Sa, avevo bisogno di
rinfrescare il mio spagnolo e l’ho preso prima che venisse pubblicato in
Italia, più per un esercizio linguistico che altro. Bellissimo. Non si lasci
impressionare dalla mole; si legge in un attimo.
La
signora aveva ragione. Era da tanto che non mi capitava di restar sveglia fino
a tardi per l’incapacità di uscire da una storia. Di costringermi a spegnere la
luce per poi non riuscir a chiudere occhio davanti alle scritte sui muri che
chiamano lo Txato traditore, venduto,
vigliacco. Lui che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare e dar
lavoro agli uomini di questo paesino senza nome vicino a San Sebastián, perché
il lavoro è meglio tenerselo in casa, che bisogno c’è d’assumere gente di fuori
con tutte le famiglie di qui che hanno bisogno di campare? Lo Txato che s’è
sempre preoccupato della sua famiglia, della sua impresa e della bicicletta la
domenica. Ha pagato l’Eta per vivere in pace, ma poi ha smesso perché le
richieste iniziavano a diventare esagerate e perché, in fondo, non gli piace
l’idea che i suoi soldi finanzino attentati terroristici e morte. È convinto
del fatto che il paese si schiererà al suo fianco, invece trova porte chiuse,
volti che si girano dall’altra parte, negozi che non hanno più merce da vendere
alla sua famiglia. Amicizie di una vita che terminano in una notte, pugnalate
alle spalle per paura e ignoranza.
Piove
molto nei Paesi Baschi; pioggia e vento il pomeriggio in cui Txato viene
giustiziato; pioggia e ombrelli durante le manifestazioni a sostegno dell’ETA. Piove
mentre la vedova di Txato, Bittori, va al cimitero per raccontare le ultime
novità alla tomba del suo Txatito. Piove quando dalla nuova casa di San
Sebastian si dirige verso quella che per tanti anni fu la sua casa, lì dove
Txato è stato ucciso. Ma non si lascia spaventare dalla pioggia Bittori, né
dalle osservazioni di quei due figli strambi che vorrebbero proteggerla dalle
cattiverie del paese.
Pioggia
e cielo scuro nelle giornate in cui Joxe Mari inizia il praticantato per
entrare nell’organizzazione. Non si accontenta più di bruciare autobus e
bancomat. Basta con il lavoro, la pallamano, il sogno d’esser ingaggiato con la
squadra dell’FC Barcellona. Vuole fare il passo definitivo, gora ETA, gora Euskadi askatuta. Viva
l’Eta, viva Euskadi libera.
È
una lingua aspra l’euskera. Ripeto
qualche parola inciampando di continuo.
Poco
più di 600 pagine in cui non si fa che andare avanti e indietro nel tempo,
entrando nelle vite di due famiglie unite da un’amicizia fraterna e bruscamente
separate dalla lotta armata. Vite di persone comuni che lavorano, risparmiano,
leggono, vanno all’università, s’innamorano, vengono licenziate, vanno in bici
la domenica, s’incontrano in pasticceria, trascorrono ore nell’orto o in
fabbrica. Tutte cose insignificanti per la Storia. Persone che in fondo non si mescolano
troppo con la politica, gente che parla euskera,
baschi orgogliosi d’esser tali ma che non perdono troppo tempo in riflessioni
filosofiche. Che pensa il diciannovenne Joxe Mari, dopo aver bruciato un
autobus e prima di impugnare una pistola e iniziare la lotta armata?
«Lo
sapete che non mi piace la politica. Per me è lo stesso se comanda uno o
l’altro. Io lotto soltanto per una Euskal
Herria come popolo liberato. Il resto, fate quello che volete».
Patria è un romanzo potente
che ti trascina nelle giornate e nei pensieri dei suoi numerosi personaggi. E
tu sei lì che ti sposti dalla tomba dello Txato alla cucina in cui Miren
continua a friggere pesce e non riesci a staccarti dai pensieri pronunciati a
voce alta, dalle lamentele, dai sensi di colpa di Xabier, dalle farneticazioni
di Joxe Mari, dai silenzi di Joxian. Arrivi alla fine e guardi con sconforto la
tua libreria: e ora dove la trovo un’altra storia che mi tenga sveglia la notte,
facendomi dimenticare tutto il resto?
Fernando Aramburu, Patria, magnifica traduzione di Bruno Arpaia, Ugo Guanda Editore, 2017.