giovedì 18 gennaio 2018

Patria, Fernando Aramburu

Ho ascoltato Fernando Aramburu al Festival della letteratura di Mantova lo scorso settembre.
Aramburu aveva già portato l’Eta nel mio precedente appartamento qualche anno fa. L’aveva fatto con dieci brevi racconti, I pesci dell’amarezza (usciti per i tipi di La nuova frontiera). C’erano anche lì degli aita (papà), delle ikurriña (bandiere basche) che sventolavano, diverse ekintza (attentati), un qualche barlume di barkatu (perdono)
M’ero fatta l’idea che Aramburu fosse un uomo malinconico, la voce esile, lo sguardo basso alla ricerca di una qualche verità. Perciò non mi sono stupita molto quando ha iniziato a parlare: quasi monotono, nemmeno un filo d’ironia, un sorriso dolce che s’è dissolto in un attimo; nessuna ruffianeria verso i potenziali lettori presenti nella chiesa di Santa Paola, a Mantova. La signora accanto a me annuiva a ciascuna delle sue parole, senza attendere la traduzione. Seria, attenta, un convinto applauso finale. Un breve scambio di battute. Mi par di capire che ha già letto Patria. Sa, avevo bisogno di rinfrescare il mio spagnolo e l’ho preso prima che venisse pubblicato in Italia, più per un esercizio linguistico che altro. Bellissimo. Non si lasci impressionare dalla mole; si legge in un attimo.
La signora aveva ragione. Era da tanto che non mi capitava di restar sveglia fino a tardi per l’incapacità di uscire da una storia. Di costringermi a spegnere la luce per poi non riuscir a chiudere occhio davanti alle scritte sui muri che chiamano lo Txato traditore, venduto, vigliacco. Lui che in tutta la vita non ha fatto altro che lavorare e dar lavoro agli uomini di questo paesino senza nome vicino a San Sebastián, perché il lavoro è meglio tenerselo in casa, che bisogno c’è d’assumere gente di fuori con tutte le famiglie di qui che hanno bisogno di campare? Lo Txato che s’è sempre preoccupato della sua famiglia, della sua impresa e della bicicletta la domenica. Ha pagato l’Eta per vivere in pace, ma poi ha smesso perché le richieste iniziavano a diventare esagerate e perché, in fondo, non gli piace l’idea che i suoi soldi finanzino attentati terroristici e morte. È convinto del fatto che il paese si schiererà al suo fianco, invece trova porte chiuse, volti che si girano dall’altra parte, negozi che non hanno più merce da vendere alla sua famiglia. Amicizie di una vita che terminano in una notte, pugnalate alle spalle per paura e ignoranza.
Piove molto nei Paesi Baschi; pioggia e vento il pomeriggio in cui Txato viene giustiziato; pioggia e ombrelli durante le manifestazioni a sostegno dell’ETA. Piove mentre la vedova di Txato, Bittori, va al cimitero per raccontare le ultime novità alla tomba del suo Txatito. Piove quando dalla nuova casa di San Sebastian si dirige verso quella che per tanti anni fu la sua casa, lì dove Txato è stato ucciso. Ma non si lascia spaventare dalla pioggia Bittori, né dalle osservazioni di quei due figli strambi che vorrebbero proteggerla dalle cattiverie del paese.   
Pioggia e cielo scuro nelle giornate in cui Joxe Mari inizia il praticantato per entrare nell’organizzazione. Non si accontenta più di bruciare autobus e bancomat. Basta con il lavoro, la pallamano, il sogno d’esser ingaggiato con la squadra dell’FC Barcellona. Vuole fare il passo definitivo, gora ETA, gora Euskadi askatuta. Viva l’Eta, viva Euskadi libera.
È una lingua aspra l’euskera. Ripeto qualche parola inciampando di continuo.
Poco più di 600 pagine in cui non si fa che andare avanti e indietro nel tempo, entrando nelle vite di due famiglie unite da un’amicizia fraterna e bruscamente separate dalla lotta armata. Vite di persone comuni che lavorano, risparmiano, leggono, vanno all’università, s’innamorano, vengono licenziate, vanno in bici la domenica, s’incontrano in pasticceria, trascorrono ore nell’orto o in fabbrica. Tutte cose insignificanti per la Storia. Persone che in fondo non si mescolano troppo con la politica, gente che parla euskera, baschi orgogliosi d’esser tali ma che non perdono troppo tempo in riflessioni filosofiche. Che pensa il diciannovenne Joxe Mari, dopo aver bruciato un autobus e prima di impugnare una pistola e iniziare la lotta armata?
«Lo sapete che non mi piace la politica. Per me è lo stesso se comanda uno o l’altro. Io lotto soltanto per una Euskal Herria come popolo liberato. Il resto, fate quello che volete».
Patria è un romanzo potente che ti trascina nelle giornate e nei pensieri dei suoi numerosi personaggi. E tu sei lì che ti sposti dalla tomba dello Txato alla cucina in cui Miren continua a friggere pesce e non riesci a staccarti dai pensieri pronunciati a voce alta, dalle lamentele, dai sensi di colpa di Xabier, dalle farneticazioni di Joxe Mari, dai silenzi di Joxian. Arrivi alla fine e guardi con sconforto la tua libreria: e ora dove la trovo un’altra storia che mi tenga sveglia la notte, facendomi dimenticare tutto il resto?

Fernando Aramburu, Patria, magnifica traduzione di Bruno Arpaia, Ugo Guanda Editore, 2017.
  

venerdì 12 gennaio 2018

Storia di un lettore - Paolo Di Paolo

È arrivato un po’ di corsa, in una domenica mattina in cui Roma stenta a svegliarsi; si è guardato intorno senza lasciar trapelare se fosse più rassicurato o deluso (ok, sarà un incontro tra pochi. Peccato però…); ha sorriso ed ha detto che il caffè era secondario, abbassare il volume della musica, invece, poteva essere una buona idea. Insomma, una colazione letteraria senza la colazione.
Ho conosciuto il lettore Paolo Di Paolo dai suoi articoli su Antonio Tabucchi e, pur non avendo ancora letto Vite che sono la tua, il bello dei romanzi in 27 storie, sono andata all’incontro organizzato dal gruppo delle Lettrici resistenti perché volevo rivedere Tabucchi attraverso gli occhi di chi aveva avuto il privilegio di far parte della sua bottega. Ma l’incontro con Di Paolo è stato molto più di una presentazione tra pochi intimi.
Inizia a raccontare la sua storia di lettore a partire dalla spacciatrice di libri, paziente del suo babbo, che somministrava romanzi ad un ragazzino occhialuto. Ci tiene a specificare che nessuno dei titoli riportati nel suo libro debba essere considerato imprescindibile per la storia della letteratura. Non è la lista dei 1000 libri da leggere prima di morire, volevo solo raccontare cosa abbiano rappresentato alcuni libri nella mia storia di lettore. E mentre chiacchiera a ruota libera, ha un lapsus, confondendo la parola libro con la parola persona; sorride, in fondo per un lettore incontrare un libro è come incontrare una persona. E inizia a raccontarci di Tabucchi, uomo e scrittore. Degli ultimi anni della sua vita tra Parigi e Lisbona, della sua capacità di cucinare mentre sta dettando un testo a voce alta, punteggiatura compresa; della sua ricerca spasmodica della perfezione: mettere e togliere virgole in testi che sembravano già perfetti, continuare a lavorare tutta la notte su un libro già pronto per andare in stampa (Viaggi e altri viaggi).
Ma, Antonio, hai trovato ancora qualche inesattezza? Qualcosa c’era…
Tabucchi con una matita dietro l’orecchio e lo sguardo mite. E nell’ascoltare Paolo Di Paolo che racconta Tabucchi, capisci il senso della parola maestro.
Il Di Paolo trentacinquenne ama i romanzi che non svelino troppo, quelli impalpabili, difficili da raccontare, come la Trilogia della città di K.
È uno di quei libri di cui due lettori possono parlare, capendo cosa intenda dire l’altro, solo perché entrambi l’hanno letto.
Paolo Di Paolo un lettore che predilige la carta, pur utilizzando il digitale per esigenze professionali; sottolinea, prende nota, fa le orecchie, legge le nuove traduzioni dei classici. Per scrivere questo libro sono partito da ciò che avevo sottolineato nelle mie letture di venti anni fa. In qualche caso, ho acquistato una nuova copia, per confrontare ciò che ho evidenziato nella lettura di oggi con ciò che mi aveva colpito da ragazzo. A volte le frasi coincidevano. 
È un lettore che sente la mancanza dello stupore dell’incontro. Ormai, per il lavoro che svolgo, so già cosa sta per uscire, ho già ricevuto buona parte dei romanzi di cui si parlerà nei prossimi giorni. È difficile che possa entrare in libreria e farmi rapire da un incipit. Mi succede ancora con qualche romanzo straniero. Con l’incipit di Riparare i venti di Maylis de Kerangal, ad esempio [durante la conversazione ne ha parlato così tante volte da non poter far a meno di prendere nota], ma sono situazioni rare.


Ti viene spontaneo chiamarlo Paolo, dargli del tu, e non perché con i suoi 35 anni la nostra classe dirigente lo chiamerebbe ancora “ragazzo”, ma perché non c’è la spocchia di certi intellettuali italiani, di certi scrittori che ti guardano dall’alto delle loro conoscenze; c’è solo un lettore vorace che dialoga con altri lettori.
Di Paolo è un lettore esigente, critico verso il mercato editoriale e verso il messaggio lanciato dalle campagne pubblicitarie per la promozione del libro e della lettura. Non penso che un lettore sia migliore o più intelligente di una persona che non legge. I famosi dati Istat sulla lettura lasciano il tempo che trovano. Non penso che aumentare la percentuale di chi acquista un libro l’anno possa servire a qualcosa. Non dimentichiamoci che il mercato è tenuto in piedi da quella piccolissima percentuale di lettori che acquista libri ogni mese, senza aspettare il Natale. Ed è verso questi lettori che le case editrici hanno una precisa responsabilità: refusi, sciatterie, cattive traduzioni non pagano. 
Naturalmente s’è parlato anche delle 27 storie del libro, delle altre storie e delle tante storie mancanti, fino a quando non ci hanno invitato a lasciare il locale. Ora, mentre faccio ordine nei miei pensieri, una vocina mi dice che dovrei dare un’altra chance a David Foster Wallace. Che c’entra DFW con Paolo Di Paolo? C’entra, c’entra…

Qui un bel ricordo di Antonio Tabucchi.