giovedì 22 marzo 2018

Ma i libri danno felicità?


La fascinazione dei festival e delle fiere del libro è passata (cresciamo tutti e il parco giochi non esercita più il potere di una volta), però c’è Libri come a due passi, parlano addirittura di felicità, che faccio? Non vado?
A differenza delle precedenti edizioni, quest’anno non mi sono organizzata, non ho comprato alcun biglietto in prevendita, non so a che ora mi libererò dagli impegni di lavoro, è previsto il nubifragio, però confido nella felicità promessa. Prendo la metro e noto una cospicua presenza di scozzesi in kilt. Se la cantano allegramente. Ma che belli!, chissà dove andranno. Immersa nel mio universo parallelo, comprendo che andranno all’Olimpico solo all’uscita dalla metro, quando vengo travolta da una marea di scozzesi che, incuranti del semaforo rosso, della pioggia, del tram, dei romani che strombazzano di fronte a una massa di pedoni che hanno bloccato completamente la circolazione, camminano spediti verso il Super Saturday del Sei Nazioni del rugby. Ed è sicuramente felicità quel boato che mi avvolge nel momento in cui i tifosi incrociano il pullman dei giocatori. Volano berretti, si alzano bottiglie di birra, si agitano i kilt. Come in un romanzo.
Io, intanto, riesco a sgattaiolar via e mi avvicino alle pagine svolazzanti dell’Auditorium.

Biglietti esauriti per buona parte degli incontri a cui avrei voluto assistere; mi lascio guidare dal Caso. E il Caso vuole che il primo incontro sia su Sudeste, libro dello scrittore argentino Haroldo Conti, poco conosciuto in Italia, appena pubblicato dai tipi di Exòrma nella traduzione di Marino Magliani.
Haroldo Conti venne sequestrato il 5 maggio 1976, dopo il golpe militare in Argentina e, per dirla con le parole di Magliani, fatto sparire da Videla, il dittatore dal volto malinconico. Dello scrittore del Delta del fiume Paranà, impegnato politicamente, narratore di canali, piccole isole e grandi solitudini, io non sapevo alcunché. Così come ignoravo alcune delle vicende politiche raccontate da Marino Magliani e i tanti titoli di opere non ancora tradotte in Italia. «Continuiamo ad avere la percezione che la letteratura sudamericana sia solo realismo magico. Ma non è così. C’è tutta una fetta di letteratura da scoprire».


Esco dalla poetica del fiume e inizio a camminare sulla ghiaia dei vialetti della Reggia di Caserta. Luogo di cui ricordo solo il caldo soffocante della prima e unica volta in cui vi andai.
Giusi Marchetta ci guida tra le statue del Vanvitelli e le enormi vasche della Reggia, ci racconta di come possa perseguitarci l’infanzia e di quella sensazione che si prova addentrandosi tra i giardini della Reggia: “accade una cosa misteriosa. I rumori si fanno così distanti da non sentire più nulla. Una specie di distopia”.
Mentre penso a come un luogo che sa tanto di passato possa evocare una sensazione distopica, cado nella Selva oscura di Nicole Krauss, presentato da Wlodek Goldkorn come il miglior libro uscito di recente. Confessione del giorno: tutte le volte in cui Goldkorn ha presentato qualche libro di cui era incredibilmente entusiasta, io sono uscita dalla sala completamente spaesata, perché il suo punto di vista viene regolarmente smentito dall’autore del romanzo. Però, per qualche misteriosa alchimia, finisco sempre per acquistare il libro e invaghirmene. 
E finirò in libreria anche questa volta, tentata da una storia ambientata a Tel Aviv, in cui c’è di mezzo il perdersi e il ritrovarsi, uscire dagli schemi e spezzare le vecchie forme della nostra vita che non sono più calzanti con ciò che siamo diventati, Dante, Kafka e Gogol… Troppa roba per poter resistere.
Gli incontri si sovrappongono, gli scrittori parlano della genesi dei loro libri, delle giornate trascorse in luoghi isolati in cui trovano rifugio per scrivere, di lunghe camminate, di luoghi affollati che hanno ispirato questo o quel romanzo. Un caos.
Quindi la scrittura dà felicità? Sì, stando alle ossessioni di alcuni grandi autori, raccontate da Annalena Benini (Marina Cvetaeva: la mia vacanza è il tavolo su cui lavoro ogni giorno. Oppure Alice Munro che scansa dalla scrivania le figlie piccole, perché il piacere della scrittura viene prima degli affetti).
Scrittura e felicità? No, stando alle testimonianze di Antonio Moresco, per il quale la scrittura è una parete verticale di cui non si vede mai la cima, o per Michela Murgia, che scrive solo quando è profondamente infelice, così infelice da avvertire l’urgenza di denunciare qualcosa al resto del mondo (“Scrivere è un gesto politico. I libri che ti spiazzano sono quelli che ti costringono a guardare nell’angolo”), o per Alessandro Zaccuri (“La vera felicità non è scrivere. Felicità potrebbe essere quella di chi viene pagato per leggere ciò che desidera”). Mi sento immediatamente in sintonia con Zaccuri.
E il blocco dello scrittore esiste?
Dipende. Sì, se sei uno scrittore di narrativa; no, se scrivi gialli. “Devo scrivere un libro all’anno. Non posso permettermi il blocco dello scrittore”, dice candidamente Ian Rankin, giallista scozzese, che scrive i suoi libri di getto (altrimenti perderebbero la tensione che un giallo deve avere), e per il quale la felicità è trovare rifugio nel tepore di un pub.
Poi, c’è un altro tipo di scrittura. L’autrice non è presente fisicamente all’Auditorium ma la trovo in diverse conversazioni. È una donna che scrive solo di ciò che le sta veramente a cuore, che non ha bisogno dei pub, che sin dai banchi di scuola si è proposta di cercare e di raccontare solo la verità. Ne tracciano un ritratto bellissimo Cristina Comencini, Pierluigi Battista (“Io mi sono innamorato di questa donna”) e Sandra Petrignani. Parlano tutti di Natalia Ginzburg e della corsara che è stata.
Io ho diverse idee di felicità. Sono sempre cose piccole. In una giornata dal grigio cielo primaverile, felicità potrebbe essere anche tornare a casa e iniziare a leggere Le piccole virtù. 


giovedì 15 marzo 2018

Cicatrici, Juan José Saer


Ieri ho capito una cosa importante: non è bene proporre la lettura di un libro a un gruppo di lettura senza averlo letto in precedenza. Potrebbe sembrare una banalità, ma si corre il rischio di avvelenare la propria lettura del romanzo.
La mia copia
Cicatrici è uno di quei libri acquistati a scatola chiusa qualche tempo fa. Quel genio di Saer che snobba il realismo magico e mescola la lingua visionaria dei sudamericani con lo sperimentalismo dei francesi di metà Novecento. Così mi disse un lettore che stimo molto. E io mi fidai, pur sapendo che non sarebbe stata una lettura facile. Cicatrici è rimasto ad attendermi fino al mese scorso, quando ho stoltamente pensato di leggerlo insieme a uno dei vari gruppi di lettura che frequento. Un gruppo eterogeneo di lettori forti (potentissimi rispetto ai miei ritmi), eppure sin dal momento in cui ho annunciato il titolo scelto, ho avuto il presentimento che stessi commettendo un errore. Infatti…
Juan José Saer nacque nella provincia di Santa Fe (Argentina) nel 1937 da una famiglia di immigrati siriani, ma trascorse la maggior parte della sua vita a Parigi, in un appartamento sopra la stazione di Montparnasse. Pare fosse persona schiva, riservata, intenta a studiare l’uomo, le sue ossessioni e il suo agire e a raccontare l’Argentina da lontano.
Santa Fe, vista da Parigi, è una città cupa, immersa nella pioviggine, con gli alberi dei parchi avvolti da una penombra blu, una nebbia che toglie qualsiasi punto di riferimento e auto con i tergicristalli perennemente in funzione.  
Inizio a leggere la prima parte del romanzo e, sorvolando sulla minuziosa descrizione delle partite di biliardo tra Angelito, neo giornalista di cronaca al quotidiano La Regíon, e Tomatis, scrittore, giornalista e sciupafemmine, mi lascio trascinare dalla storia. Surreale ma neanche troppo insensata. Mi diverte seguire i passi di un giornalista che s’improvvisa meteorologo ("la mia funzione era più o meno quella di Dio"), che finge alla bisogna di avere uno zio che si chiama Philip Marlowe; un lettore appassionato e ossessionato dall’idea di avere un doppio. Una persona identica a sé, che indossa gli stessi abiti, che percorre le stesse strade ma che forse sta vivendo una vita che lui non può vivere. O che forse è la stessa vita con le stesse cicatrici.
Cervellotico. Arrivo alla fine della prima parte, cercando di capire dove sia l’equivoco (Saer, mi stai ingannando e lo scoprirò solo strada facendo, oppure non devo cercare altre interpretazioni che vadano oltre i fatti?) e mi ritrovo nel bel mezzo di una partita di punto banco. Delle regole del gioco non comprendo granché; finalmente, però, inizio a capire com’è strutturato il romanzo: quattro parti che si intersecano tra loro, gli stessi personaggi che diventano protagonisti di volta in volta di ciascun capitolo; di ciascun personaggio viene descritta la sua ossessione attraverso i fotogrammi della giornata. Un’azione dopo l’altra, senza giudizi esterni; ogni personaggio parla in prima persona: Angel descrive i momenti in cui incrocia il suo doppio in città; Sergio, ex avvocato ossessionato dal gioco, racconta le sue nottate intorno a un tavolo da gioco; Ernesto, giudice non onesto, racconta ossessivamente i passaggi della traduzione de Il ritratto di Dorian Gray; l’operaio Luis Fiore descrive minuziosamente l’ultima giornata trascorsa con sua moglie, prima di ucciderla. Non c’è una trama vera e propria; c’è un evento di cronaca: la morte della Gringa, la moglie di Luis Fiore, e ogni episodio della vita dei protagonisti termina con il delitto commesso da Fiore.
Nella follia del romanzo, Saer riesce a farti vedere le scene e a farti percepire l’alienazione dei personaggi e un senso di angoscia che non ti si stacca di dosso, un po’ come la pioviggine che permea il romanzo.
Ora, se non avessi proposto la condivisione della lettura di Cicatrici, quest’angoscia me la sarei tenuta per me. Avrei apprezzato Saer senza avvertire il peso della pioviggine che cadeva sul gruppo di lettura. Avrei fatto le mie considerazioni, avrei letto qualcos’altro di Saer senza sognarmi di regalare un libro del genere se non a persone di cui conosco bene i gusti. Invece no. Ho ascoltato con interesse l’opinione di chi avrebbe fatto volentieri a meno d’incrociare questo romanzo e di chi ne ha apprezzato l’intreccio narrativo, portando comunque a casa il senso di colpa per non aver suggerito una lettura diversa.
Tutto questo per dire che i gruppi di lettura sono una bella cosa, ma certe volte possono lasciare cicatrici indelebili.



Juan José Saer, Cicatrici (Titolo originale Cicatrices) traduzione dallo spagnolo (Argentina) di Gina Maneri, La nuova frontiera, 2012.
Qui una recensione di Fabio Stassi.